Il comandante della caccia reale
- Producent: Genesi Editrice
- Autor: Renato Gabriele
- Kategoria: literatura piękna
- Kod produktu: 9788874141418
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cena: 94,50PLN
Nicandro
Ferrante è un arcigno e sospettoso ma anche abilissimo guardiacaccia con
il delicato compito di gestire la rinomata caccia reale alla temuta
Fagianeria. Uomo che si è fatto una posizione col sudore e ora sente di
meritare rispetto, se ne parte lieto con il suo adorato cavallo e mentre
inizia a percorrere le prime strade di questa avventura tanto lui
quanto l’animale vengono coperti dalla polvere della strada, polvere che
non li consegna al passato ma anzi li vivifica nel sottolineare la loro
fratellanza, al di là di ogni sfruttamento, nella volontà di
attraversare insieme tempi difficili; che non impediscono però all’uomo
gustosi gesti di stizza nei confronti di chi ritiene inferiore per censo
o intelligenza. Sandro Montalto (recensione su Vernice n. 39, 2008)
Centrale nel libro è la scena della caccia, che con
accenti dapprima quasi ariosteschi e poi crudemente realistici descrive
il successo dell’iniziativa del nostro protagonista, il quale giungerà,
ebbro di successo e quasi posseduto dalla brutalità degli eventi, a
precipitarsi sul cinghiale abbattuto dal sovrano, sgozzarlo con il suo
tascapane e sporcarsi il volto con il sangue dell’animale, quasi in un
rituale antico e bestiale a un tempo, per poi recidere i genitali
dell’animale e offrirli al sovrano come amuleto. Una consacrazione, per
il capocaccia, che si concluderà con la sua risposta all’ultimo,
inaspettato assalto quasi vendicativo di un altro «furente porcone». Ma
il cinghiale non tarderà a diventare la vera e propria nemesi di don
Nicandro.
In tutto questo romanzo di contrasti, insomma, scritto in
uno stile di notevole qualità ma sempre godibile, si quaderna il
catalogo delle emozioni: basti l’esempio della travolgente notte di
sesso con Rosa, sfortunata moglie di un omosessuale che – come Nicandro
capirà – lo ha comandato con il suo desiderio (fino a livelli
difficilmente immaginabili, come si comprenderà quando si leggerà del
loro secondo incontro), o al fugace amorazzo con la duchessina Amalia,
allieva (come lo stesso Nicandro, seppur in una diversa situazione) di
un organista sospetto carbonaro scomparso per intercessione anche di
Nicandro stesso e ricomparso proprio prima della battuta di caccia sotto
le spoglie di timpanista, ragazza che lo possiederà nel bosco per poi
sputargli in faccia durante la caccia, e che seguiterà ad alternare
atteggiamenti di disprezzo e di accusa per l’amato organista e fugaci
amplessi quasi bestiali; e di queste accuse la ragazza ha bisogno: ella
può amare «soltanto gli espiatori di grandi colpe, soltanto i bastardi
traditori»; tuttavia il rapporto è complesso siccome secondo lei «nella
mortificazione del desiderio, consisteva l’unico possibile appagamento».
Oppure possiamo pensare, all’opposto, al suo urto con il fugace e
freddo rapporto mercenario con l’anonima contadinella al santuario.
Proprio
in questi frangenti amorosi si sviluppa la fitta trama di rimandi che
attraversa il romanzo, basterebbe pensare, stando ai casi più ovvii, a
Nicandro che conosce la duchessina quando irrompe con il suo cavallo e
gli fa scappare la volpe, per poi ricordargli proprio nel volto
stravolto dall’amplesso fattezze volpine; oppure alla ragazza che
nell’amplesso gioca minacciandolo di strappargli lo scroto come lui fa
con le prede. Senza contare gli equilibri: il protagonista si aggira tra
le bestie uccise alla sua vittoriosa caccia e sembra provare una
spossatezza mista a esaltazione a suo modo frustrante, mentre nel
rapporto con la duchessina, frustrato dalla negata penetrazione e dalle
perverse angherie di lei, raggiunge il piacere. Senza contare poi come –
in un infittirsi dei pensieri di Nicandro, crescendo che accompagna
tutto il romanzo – i suoi turbamenti sessuali, rapporti complessi con le
donne e rapporti ora di sudditanza ora di succube fascino con alcuni
uomini (recrudescenze di una bisessualità che riteneva sopita),
scatenino in lui comportamenti spesso contrastanti nei momenti più
intimi.
Dopo la grande caccia Nicandro viene nominato comandante, e
dimostra anche in questo frangente il suo zelo. Eppure i suoi riposi
sono disturbati da incubi: esattamente come un cinghiale – l’animale
atavico, capace di battute di caccia e di amplessi animaleschi -, anche
lui si aspettava da un giorno all’altro una pallottola fischiante
giungergli in fronte, mandata da uno dei molti bracconieri che
infestavano i boschi. Ma dal bosco non giunge una pallottola, bensì una
voce che gli dà del traditore, del vigliacco, una voce che tutti sentono
e che lo mette in allarme; così sarà lui a far fischiare pallottole in
direzione dell’anonima voce diffamante. Ma esse arrivano tardi:
l’ispettore lo convoca e lo mette al corrente che chi di dovere sa delle
sue azioni scellerate, delle sue ambiguità («un ricchione puttanissimo
al servizio di sua maestà! Non ci posso pensare»). Finché una sera,
durante l’ennesima diffamazione dell’anonima voce dal bosco, il colpo
sembra andare a segno, eppure gli eventi per il nostro don Nicandro
precipitano, in un addensarsi di vicende, sospetti e tradimenti.
Nicandro cerca di elaborare tutte le vittorie, le disgrazie e le
emozioni provate e dunque cresce, fino a capire che forse la caccia non è
la sola attività dell’uomo degna di considerazione. Eppure, il romanzo
sembra dirci che esiste una sorta di destino selvatico che niente e
nessuno può contraddire.
L’autore ha ben assimilato la lezione
dei grandi romanzi ottocenteschi, e secondo la nozione di alcuni grandi
(Manzoni soprattutto, ma anche di qualche narratore inglese) vi sono
eloquenti descrizioni, nello stile ricco ma mai prolisso. E non sfuggano
nascoste citazioni, anche poetiche: per tutte una delle più ovvie,
all’inizio, quella leopardiana «vegetazione del colle [che] escludeva
dalla sua vista una parte della masseria»; o ancora questa, che richiama
il celeberrimo dialogo tra Diogene ed Alessandro Magno: «Stace
incazzato assai? E sai quanto mai ne fotte a me! Cusimì, spostate da lo
sole, lievete, ché me stai dinante e me fai ombra».
Queste
descrizioni, comunque, dicevamo, sono rivelatrici nel loro sapersi fare
specchio dei pensieri e delle emozioni dei personaggi, quasi l’autore
fosse convinto che dopo tutto l’arte porta con sé la menzogna, mentre
l’oggettività delle situazioni già porta in sé la cruda realtà di una
saga privata eppure universale. A tale proposito è esemplare l’episodio
in cui Nicandro osservando un pittore non riesce a trovare una
corrispondenza tra il paesaggio reale e quello che il pittore tenta di
riprodurre, episodio che ci aiuta a configurare ancora di più questo
libro come un bildungroman.
Ecco allora che l’uso di termini
gergali o di dialettismi non costituisce un codice privato, bensì
contribuisce a dipingere efficacemente una situazione senza lo schermo
di certa lettura antropologica del volgo oggi in voga (un rifiuto dello
sguardo asettico e “dall’alto” così bene praticato anche da Camilleri).
C’è una continua osmosi formale e culturale tra lingua e dialetto,
capaci di influire sui processi del pensiero: ecco allora che mentre
l’uso del dialetto è sempre comprensibile soprattutto grazie a certi
crescendo che rendono intuibilissimo il senso (ecco un esempio: «Amalia,
tacendo del fatto che quella si era offerta, ed aveva ottenuto, di
farsene giovenca da monta, chella spurcida zambrana!»), la lingua
generale del volume mescola sapientemente arcaismi, preziosismi («erano
del tutto esclusi da ogni vista in quel muscoso abitacolo, in quel
profumato ricetto nel cuore più riposto della selva, nel fitto delle
canfore»), dialetti e linguaggio corrente in un humus che ha il suo nume in Gadda.
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