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  • Il comandante della caccia reale

Il comandante della caccia reale

  • cena: 94,50PLN

Nicandro Ferrante è un arcigno e sospettoso ma anche abilissimo guardiacaccia con il delicato compito di gestire la rinomata caccia reale alla temuta Fagianeria. Uomo che si è fatto una posizione col sudore e ora sente di meritare rispetto, se ne parte lieto con il suo adorato cavallo e mentre inizia a percorrere le prime strade di questa avventura tanto lui quanto l’animale vengono coperti dalla polvere della strada, polvere che non li consegna al passato ma anzi li vivifica nel sottolineare la loro fratellanza, al di là di ogni sfruttamento, nella volontà di attraversare insieme tempi difficili; che non impediscono però all’uomo gustosi gesti di stizza nei confronti di chi ritiene inferiore per censo o intelligenza. 
Centrale nel libro è la scena della caccia, che con accenti dapprima quasi ariosteschi e poi crudemente realistici descrive il successo dell’iniziativa del nostro protagonista, il quale giungerà, ebbro di successo e quasi posseduto dalla brutalità degli eventi, a precipitarsi sul cinghiale abbattuto dal sovrano, sgozzarlo con il suo tascapane e sporcarsi il volto con il sangue dell’animale, quasi in un rituale antico e bestiale a un tempo, per poi recidere i genitali dell’animale e offrirli al sovrano come amuleto. Una consacrazione, per il capocaccia, che si concluderà con la sua risposta all’ultimo, inaspettato assalto quasi vendicativo di un altro «furente porcone». Ma il cinghiale non tarderà a diventare la vera e propria nemesi di don Nicandro. 
In tutto questo romanzo di contrasti, insomma, scritto in uno stile di notevole qualità ma sempre godibile, si quaderna il catalogo delle emozioni: basti l’esempio della travolgente notte di sesso con Rosa, sfortunata moglie di un omosessuale che – come Nicandro capirà – lo ha comandato con il suo desiderio (fino a livelli difficilmente immaginabili, come si comprenderà quando si leggerà del loro secondo incontro), o al fugace amorazzo con la duchessina Amalia, allieva (come lo stesso Nicandro, seppur in una diversa situazione) di un organista sospetto carbonaro scomparso per intercessione anche di Nicandro stesso e ricomparso proprio prima della battuta di caccia sotto le spoglie di timpanista, ragazza che lo possiederà nel bosco per poi sputargli in faccia durante la caccia, e che seguiterà ad alternare atteggiamenti di disprezzo e di accusa per l’amato organista e fugaci amplessi quasi bestiali; e di queste accuse la ragazza ha bisogno: ella può amare «soltanto gli espiatori di grandi colpe, soltanto i bastardi traditori»; tuttavia il rapporto è complesso siccome secondo lei «nella mortificazione del desiderio, consisteva l’unico possibile appagamento». Oppure possiamo pensare, all’opposto, al suo urto con il fugace e freddo rapporto mercenario con l’anonima contadinella al santuario. 
Proprio in questi frangenti amorosi si sviluppa la fitta trama di rimandi che attraversa il romanzo, basterebbe pensare, stando ai casi più ovvii, a Nicandro che conosce la duchessina quando irrompe con il suo cavallo e gli fa scappare la volpe, per poi ricordargli proprio nel volto stravolto dall’amplesso fattezze volpine; oppure alla ragazza che nell’amplesso gioca minacciandolo di strappargli lo scroto come lui fa con le prede. Senza contare gli equilibri: il protagonista si aggira tra le bestie uccise alla sua vittoriosa caccia e sembra provare una spossatezza mista a esaltazione a suo modo frustrante, mentre nel rapporto con la duchessina, frustrato dalla negata penetrazione e dalle perverse angherie di lei, raggiunge il piacere. Senza contare poi come – in un infittirsi dei pensieri di Nicandro, crescendo che accompagna tutto il romanzo – i suoi turbamenti sessuali, rapporti complessi con le donne e rapporti ora di sudditanza ora di succube fascino con alcuni uomini (recrudescenze di una bisessualità che riteneva sopita), scatenino in lui comportamenti spesso contrastanti nei momenti più intimi. 
Dopo la grande caccia Nicandro viene nominato comandante, e dimostra anche in questo frangente il suo zelo. Eppure i suoi riposi sono disturbati da incubi: esattamente come un cinghiale – l’animale atavico, capace di battute di caccia e di amplessi animaleschi -, anche lui si aspettava da un giorno all’altro una pallottola fischiante giungergli in fronte, mandata da uno dei molti bracconieri che infestavano i boschi. Ma dal bosco non giunge una pallottola, bensì una voce che gli dà del traditore, del vigliacco, una voce che tutti sentono e che lo mette in allarme; così sarà lui a far fischiare pallottole in direzione dell’anonima voce diffamante. Ma esse arrivano tardi: l’ispettore lo convoca e lo mette al corrente che chi di dovere sa delle sue azioni scellerate, delle sue ambiguità («un ricchione puttanissimo al servizio di sua maestà! Non ci posso pensare»). Finché una sera, durante l’ennesima diffamazione dell’anonima voce dal bosco, il colpo sembra andare a segno, eppure gli eventi per il nostro don Nicandro precipitano, in un addensarsi di vicende, sospetti e tradimenti. Nicandro cerca di elaborare tutte le vittorie, le disgrazie e le emozioni provate e dunque cresce, fino a capire che forse la caccia non è la sola attività dell’uomo degna di considerazione. Eppure, il romanzo sembra dirci che esiste una sorta di destino selvatico che niente e nessuno può contraddire. 

L’autore ha ben assimilato la lezione dei grandi romanzi ottocenteschi, e secondo la nozione di alcuni grandi (Manzoni soprattutto, ma anche di qualche narratore inglese) vi sono eloquenti descrizioni, nello stile ricco ma mai prolisso. E non sfuggano nascoste citazioni, anche poetiche: per tutte una delle più ovvie, all’inizio, quella leopardiana «vegetazione del colle [che] escludeva dalla sua vista una parte della masseria»; o ancora questa, che richiama il celeberrimo dialogo tra Diogene ed Alessandro Magno: «Stace incazzato assai? E sai quanto mai ne fotte a me! Cusimì, spostate da lo sole, lievete, ché me stai dinante e me fai ombra». 
Queste descrizioni, comunque, dicevamo, sono rivelatrici nel loro sapersi fare specchio dei pensieri e delle emozioni dei personaggi, quasi l’autore fosse convinto che dopo tutto l’arte porta con sé la menzogna, mentre l’oggettività delle situazioni già porta in sé la cruda realtà di una saga privata eppure universale. A tale proposito è esemplare l’episodio in cui Nicandro osservando un pittore non riesce a trovare una corrispondenza tra il paesaggio reale e quello che il pittore tenta di riprodurre, episodio che ci aiuta a configurare ancora di più questo libro come un bildungroman.
Ecco allora che l’uso di termini gergali o di dialettismi non costituisce un codice privato, bensì contribuisce a dipingere efficacemente una situazione senza lo schermo di certa lettura antropologica del volgo oggi in voga (un rifiuto dello sguardo asettico e “dall’alto” così bene praticato anche da Camilleri). C’è una continua osmosi formale e culturale tra lingua e dialetto, capaci di influire sui processi del pensiero: ecco allora che mentre l’uso del dialetto è sempre comprensibile soprattutto grazie a certi crescendo che rendono intuibilissimo il senso (ecco un esempio: «Amalia, tacendo del fatto che quella si era offerta, ed aveva ottenuto, di farsene giovenca da monta, chella spurcida zambrana!»), la lingua generale del volume mescola sapientemente arcaismi, preziosismi («erano del tutto esclusi da ogni vista in quel muscoso abitacolo, in quel profumato ricetto nel cuore più riposto della selva, nel fitto delle canfore»), dialetti e linguaggio corrente in un humus che ha il suo nume in Gadda.

Sandro Montalto (recensione su Vernice n. 39, 2008)


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liczba stron 504

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